Il grande orafo e scultore fiorentino, dall’indole passionale ed eroica ma anche irascibile e rissosa, in fuga dalla sua città natale, giunge a Roma nel 1523 dove rimane per alti meriti artistici nei favori dei papi Medici, soprattutto Leone X.
Entrato a far parte della corte pontificia come musicista, vive momenti memorabili asserragliato con Clemente VII a Castel Sant’Angelo, nelle terribili giornate del Sacco del 1527, prodigandosi, vista la sua abilità con le armi, nella difesa della Mole Adrianea come archibugiere e bombardiere. Sicché ha modo, come scrive nella sua Vita (I, 34-37) “di partecipare all’uccisione del comandante in capo degli assedianti, Carlo di Borbone, e di ferire il suo successore principe d’Orange”.
Nel 1538 però, l’omicidio dell’assassino del fratello, e soprattutto l’accusa fattagli da Pier Luigi Farnese di essersi impadronito di alcuni preziosi di Clemente VII, lo riportano tra le mura della fortezza capitolina come prigioniero.
Ma non vi rimane a lungo. In balia di un castellano pazzo che si crede un pipistrello, Cellini medita e infine realizza un’evasione avventurosa ai limiti dell’immaginabile. Lo scultore escogita un ingegnoso stratagemma: comincia a non restituire le lenzuola sporche e a nasconderle tra il pagliericcio asserendo di averne fatto dono a dei poveri soldati. Invece, man mano, le taglia e le cuce al fine di ottenere una lunga corda. Nel frattempo ruba al suo guardiano un paio di tenaglie e con queste, nottetempo, toglie i chiodi dalla porta, poi li rimette a posto fermandoli con la cera, cosicché nessuno si accorga che la porta è, di fatto, già scardinata. Così, con tutto pronto per la fuga, una sera di festa a Castello, si fa verosimilmente accompagnare da un complice fino all’uscita del cilindro, verso il ponte levatoio e qui, legando le lenzuola a un merlo del muro di cinta, si cala, dileguandosi, malgrado una gamba spezzata nella caduta, verso la casa del cardinal Cornaro. Nuovamente catturato e ricondotto a Castel Sant’Angelo, viene rigettato in una cella umida e scura di cui tanto si lamenterà nei suoi scritti.
“Io fui portato sotto un giardino in una stanza oscurissima, dove era dell’acqua assai, piena di tarantole e di molti vermi velenosi. Fummi gittato un materassuccio di capecchio in terra e fui serrato a quattro porte (…) Io stavo continuamente senza potermi muovere, perché io avevo la gamba rotta; e volendo andare pur fuor del letto per la necessità de’ miei escrementi, andavo carponi con grandissimo affanno per non fare lordure in quel luogo dove io dormiva. Avevo un’ora e mezzo del dì di un poco di riflesso di lume, il quale m’entrava in quella infelice caverna per una piccolissima buca; e solo di quel poco del tempo leggevo, e il resto del giorno e della notte sempre stavo al buio pazientemente, non mai fuor de’ pensieri de Dio e di questa nostra fragilità umana, e mi pareva esser certo in brevi giorni di aver a finir quivi e in quel modo la mia sventurata vita.” (Vita, I, 117).
Non fu così. La fortuna gira ancora una volta dalla sua parte. Dopo un anno di prigionia, infatti, il re di Francia, suo grande estimatore, convince il Papa a liberarlo.
Francesca d'Ottavio