L’11 settembre 1599, in una giornata calda e afosa, sulla piazza di ponte Sant’Angelo vengono messi a morte Beatrice Cenci, la matrigna Lucrezia, suo fratello Giacomo.
Questa la conclusione di un caso criminale destinato a dare vita a un vero e proprio mito che ispirerà la fantasia di artisti come Stendhal, Shelley e Dumas, Guido Reni, Caravaggio, Delaroche e Moravia, oltre a molti registi del cinema. Nell’oscuro caso, infatti, sono intervenuti numerosi elementi destinati a turbare le menti e a dare adito ad accese discussioni: la giovanissima età della ragazza, le violenze subite da parte del padre, le controversie giuridiche, gli intrighi politici per questioni di eredità. La Cenci, poco più che ventenne al momento della condanna, diventa così ben presto il simbolo della ribellione giovanile contro la tirannia dei genitori e delle istituzioni, emblema della bellezza ammaliatrice, dell’innocenza calpestata, dell’indipendenza e dell’orgoglio femminile contro l’oppressione.
Beatrice, figlia di Francesco Cenci, uno degli uomini più ricchi di Roma, ma altrettanto dissoluto e violento, era cresciuta nell’antico palazzo Cenci, di fronte all’Isola Tiberina, nell’area del vecchio ghetto. Bella, appassionata, vitale, forse troppo agli occhi del tirannico padre, che la rinchiude insieme alla seconda moglie Lucrezia nella fortezza di Petrella Salto, vicino a Rieti.
Esasperata dalle continue fustigazioni che il genitore continua a perpetrarle, la Cenci, con l’aiuto del suo carceriere detto Catalano, lo fa trucidare, simulando un incidente. All’alba del 9 settembre 1598, il cadavere di Francesco Cenci viene trovato con la testa spaccata nell’orto sottostante il balcone della rocca.
L’uomo viene seppellito con una cerimonia sbrigativa, il caso potrebbe dunque dirsi chiuso. Ma molte voci gridano al delitto e si apre quindi un’inchiesta per “fama”, cioè per i sospetti ormai diffusi tra la gente. L’indagine fa emergere una serie di inquietanti circostanze. In particolare, le lenzuola e il materasso di Francesco completamente intrisi di sangue fanno pensare che l’uomo sia in realtà morto altrove. Il primo ad essere arrestato e condotto nella stanza della tortura è il Catalano che, alla vista degli strumenti per il supplizio, confessa tutto per filo e per segno. Racconta della reclusione delle due donne e delle fustigazioni patite dalla giovane, della cattiveria del padre e quindi del piano. Un “delitto perfetto” risoltosi poi in un completo disastro, perchè l’oppio non basterà ad addormentare Francesco e sarà necessario un tempo considerevole e un notevole spargimento di sangue per uccidere l’uomo, rendendo così poco credibile la simulazione di un incidente. La confessione conduce all’arresto presso Castel Sant’Angelo di Beatrice, ma anche della sua matrigna e dei suoi fratelli, imprudentemente informati del piano omicida.
Beatrice e il fratello Giacomo continuano a negare, non possono essere torturati in quanto appartenenti alla nobiltà e sono sicuri di cavarsela in qualche modo. Non confessa neppure Lucrezia, confidando su appoggi importanti.
Papa Clemente VIII emetterà l’atto decisivo nell’agosto 1599, emanando un motu proprio con il quale autorizza il tribunale a torturare anche la famiglia Cenci. Il fratello Giacomo, sottoposto alla tortura della corda[1], confessa. Poco tempo dopo il fratellino Bernardo, minore d’età, racconta tutto. Lucrezia, torturata, ma per rispetto senza essere denudata e depilata come vorrebbe l’uso, alla fine cede agli inquisitori. Il 10 agosto Beatrice è appesa, anche lei vestita, alla corda e a quel punto lacerata dal dolore si arrende: “Oimè, oimè, o Madonna santissima ajutame. Calateme che voglio dire la verità”.
Il processo e la successiva condanna a morte, malgrado le molte attenuanti e la simpatia dell’opinione pubblica, furono determinati dall’interesse di papa Clemente VIII ad appropriarsi dei beni della famiglia Cenci.
Alle nove e trenta dell’11 settembre 1599 i condannati sono condotti al patibolo sulla piazza di ponte Sant’Angelo. L’unico a salvarsi, a causa della tenera età, è Bernardo. Lucrezia è decapitata per prima, subito dopo tocca a Beatrice. Il fratello Giacomo subisce la pena più atroce, prima stordito con un colpo di mazza e infine scannato e squartato.
Un’immensa folla di romani accorre sul posto, commossa dalla giovinezza e dal coraggio della fanciulla nel salire di fronte al boia. In mezzo a loro, c’è sicuramente anche Caravaggio, insieme ad Artemisia Gentileschi. Non è certamente un caso che entrambi gli artisti abbiano poi dipinto, a breve distanza di tempo, due versioni di Giuditta che decapita Oloferne, riportando sulla tela il gesto omicida con una crudezza e un’effusione di sangue che non possono non presupporre uno studio dal vero.
[1] La tortura della corda consisteva nel legare all’imputato le braccia dietro la schiena con i polsi chiusi da una stretta stringa di pelle. A questa stringa era annodata una robusta corda che serviva per alzare il malcapitato che restava così sospeso nel vuoto per il tempo necessario alla recita di varie preghiere. Questo tormento, oltre a provocare un dolore lancinante poteva portare anche a storpiature permanenti.
Francesca d'Ottavio