sabato 6 febbraio 2010

Cinquanta parole da salvare



"Se la parola “adunco” dovesse scomparire, sarebbe la fine delle favole" annota una gentile professoressa - Cinthia - sul blog della casa editrice Zanichelli che ha varato un concorso per le cinquanta parole da salvare. In effetti adunco è il naso delle streghe, così come il becco degli uccellacci minacciosi, e sia l'uno che l'altro non possono essere definiti - indifferentemente - come «curvo» o «uncinato» e, meno che mai, come «storto».

Tra le 120 mila parole - tecnicamente «lemmi» - dello Zingarelli, il curatore Mario Cannella e la sua redazione ne hanno individuate quasi tremila (2.800) che potrebbero ancora essere pienamente in uso, ma che di fatto stanno diventando desuete e abbandonate, col rischio di andare perdute. Di queste 2.800, duecento sono state identificate come un patrimonio irrinunciabile da un blog a cui hanno partecipato oltre 800 insegnanti, che hanno espresso 14 mila voti e hanno lasciato 600 commenti scritti.

Cinquanta di queste parole - infine - sono state definite «da salvare»: o si usano o la comunicazione sarà svilita per sempre. Le sfumature «Queste parole da valorizzare - spiega Cannella - non sono classificabili in maniera uniforme, tuttavia hanno un denominatore comune: sono le parole che consentono di articolare il pensiero nelle sue molteplici sfumature. Il linguaggio di ogni giorno, specie quello dei massmedia, punta a concetti netti - bianco o nero - e noi abbiamo osservato come questa deriva condanni all'oblio tutte quelle parole che esprimono le mille gamme del grigio. Ma, attenzione, i “ grigi” sono altrettanto veri del bianco e nero e ciascuno ha una sua identità non sovrapponibile a quella degli altri». Non solo «vanitoso» e «vanesio» non sono la stessa cosa, ma fragranza non è profumo, garrulo non è chiacchierone, solerte non è diligente, sapido non è saporito, fulgore non è luminosità.

E mentre, in queste coppie, il secondo termine è di pubblico dominio, il primo resta nella disponibilità di un manipolo ristretto di aristocratici del linguaggio. E così le sfumature semantiche si perdono - dicono i lessicografi dello Zingarelli - e la lingua si appiattisce in una essenzialità che amalgama la varietà in una brodaglia espressiva buona per tutte le occasioni. I numeri, in questo, dicono molto. Dei 120 mila lemmi dello Zingarelli, una persona di media cultura ne usa il 10% (12-13 mila), uno scrittore può più che raddoppiare questa cifra arrivando a 30 mila. E quindi una forte selezione del vocabolario è nei fatti, anche perché 10 mila termini sono arcaici e molti altri sono solo settoriali. «Ma ciò che lascia perplessi - dice il professor Cannella - è che il parlare di tutti i giorni è affidato a non più di 2.500 parole che da sole esauriscono l'80% di tutti i nostri enunciati».

Una povertà imputabile soprattutto ai massmedia che per essere popolari sono banali, per essere accessibili sono approssimativi, per fare audience fanno pena. E non volendo apparire come virtuosi della lingua finiscono per essere imprecisi. «Si, certo - aggiunge Cannella - test, quiz, questionari e altri strumenti di valutazione usati nella scuola non giovano all'estensione del vocabolario, così come sms, chat, twitter, i tempi televisivi, le gabbie grafiche dei giornali e tutto ciò che punta al risparmio espressivo. Però il problema vero non è che non abbiamo spazi e tempi, ma semplicemente che non conosciamo le parole per dire ciò che vogliamo dire. I Sonetti sono sempre stati di due terzine e due quartine, eppure sono bastati per dire cose eccelse. O no?».

La Stampa, 6 febbraio 2010

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